Nascono con il Concilio i libretti di Emilio, con la cultura e con le speranze del Concilio, che ha inizio l’11 ottobre 1962. Per il Natale di quell’anno il libretto è tutto sul Concilio. Con testi di Yves Congar, Roger Schutz, Ernesto Balducci. Assieme ad Agostino e Leone Magno. E con una pagina di Giovanni XXIII, che Emilio intitola: Il Concilio è un grande dialogo. In cui il Papa parla di “santa libertà dei figli di Dio nella Chiesa” e dà un’immagine affettuosa dell’incontro tra i padri conciliari venuti dai “più diversi climi e ambienti”: “bisognava che gli occhi si fissassero negli occhi, per avvertire il palpito dei cuori fraterni”.
A chiudere il libretto un testo di Paul Claudel col significativo titolo La Chiesa di tutti.
Giovanni XXIII era il suo papa: «Ha aperto vie nuove alla Chiesa, ci ha riportati al Vangelo e ci ha aiutati a gustarlo come si gusta il pane di casa fatto da nostra madre».
Nel Concilio Emilio vedeva la volontà della Chiesa di «far posto ai figli che vengono da lontano, un invito, fervido e appassionato, a tutti gli uomini di buona volontà».
Ai suoi alunni, alla sua scuola Emilio aveva già portato la novità del Concilio, ancor prima che cominciasse. È il 23 maggio 1962 quando nell’aula magna del “Virgilio” Padre Ernesto Balducci, esponente di punta della Chiesa del dialogo, parla dell’imminente Concilio convocato da Papa Giovanni. A promuovere quella conferenza, a scegliere quell’oratore, è stato Emilio. Che pubblicherà il testo a sue spese, “pro manuscripto”.
Emilio vive l’apertura del Concilio con «sobria ebbrezza, quella che fa sempre ringiovanire la Chiesa». E, da ‘piccolo prete’, rende grazie al Signore per avergli concesso «di vivere una particolare stagione storica, quella del Concilio, un’autentica primavera della Chiesa. È vero, la primavera è una stagione che riserva delle turbolenze, in compenso, però, è ricca di fermenti». E nei libretti comunica il suo entusiasmo per la nuova stagione della Chiesa. Quello per la Pentecoste 1963 è tutto dedicato al Concilio: «a tutti quelli che, per la Chiesa riunita in Concilio e per il mondo intero, attendono e invocano – assieme a Papa Giovanni – una novella Pentecoste». I testi sono divisi in due blocchi: la Voce dei Padri antichi, con Atanasio, Cirillo Alessandrino e Agostino; e la voce dei Padri conciliari con Agostino Bea, Marie Dominique Chenu e Jean Guitton.
Il libretto per la Pentecoste 1964 è tutto dedicato a Papa Giovanni. «È un anno che ci ha lasciati…. Egli ha difeso la Chiesa per tutti – scrive Emilio –, perché tutti, e prima di tutti i ‘poveri’ la riconoscessero come la loro casa…La sua umanità è stata un velo tanto trasparente che ci ha lasciato intravedere il volto di Dio». E così ricorda la Pacem in terris: «Il suo messaggio parve proprio il saluto del Signore risorto che compare in mezzo ai discepoli e li saluta: Pace a voi». “Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace. La Chiesa questo e non altro vuole con il suo Concilio”, sono le parole di Giovanni XXIII che Emilio sceglie come didascalia sotto la foto del Papa.
Si sente respirare nei libretti di quegli anni tutta la passione e l’entusiasmo di Emilio per la Chiesa che si rinnova. È nelle posizioni dei più progressisti tra i padri conciliari che si riconosce. Tra gli autori che propone in quegli anni ci sono protagonisti del Concilio come i cardinali Bea, Lercaro, Pellegrino, maestri di teologia prima visti con sospetto, come Chenu, Jean Daniélou, Henry de Lubac, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Giulio Girardi, e i grandi cronisti del Concilio come Raniero La Valle. E non mancano coloro che il Concilio lo avevano preparato con la dottrina e la sofferenza: Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, un prete operaio, il cardinale Newmann, il vescovo Geremia Bonomelli che ai primi del Novecento aveva definito dono della Provvidenza la fine del potere temporale, don Lorenzo Milani. Vedeva nel Concilio la volontà della Chiesa di «far posto ai figli che vengono da lontano, un invito, fervido e appassionato, a tutti gli uomini di buona volontà». E annotava: «La Chiesa del Concilio non è soltanto in ascolto della parola di Dio, è anche in ascolto degli uomini ».
Emilio si preoccupa di far conoscere i documenti conciliari via via che vengono approvati: Sacrosanctum Concilium, Lumen Gentium, Dei Verbum, Gaudium et Spes. Dedica il libretto per Pasqua 1965 alla Costituzione sulla liturgia, «alla quale siamo invitati ora a partecipare in maniera più attiva, più fervida, più convinta». A quel documento era particolarmente affezionato, vi leggeva una consacrazione della spiritualità che sentiva come sua. Propone così un testo di Paolo VI in cui si legge: «Una nuova pedagogia spirituale è nata col Concilio; è la sua grande novità; e noi non dobbiamo esitare a farci dapprima discepoli e poi sostenitori della scuola di preghiera che sta per cominciare». Sono parole che Emilio sognava di poter sentire da un pontefice. Nel libretto quel testo è preceduto da una serie di brani biblici e patristici, da Giovanni ad Agostino, «che ci aiuteranno a rifarci alle origini della liturgia eucaristica che celebriamo oggi».
Assieme ai testi raccolti nei libretti, sul Concilio Emilio offre ai suoi alunni, ai suoi amici, la possibilità di ascoltare la viva voce di alcuni protagonisti di quella stagione. Il 21 dicembre 1964, in un momento decisivo per il Concilio, è la volta di Padre David Maria Turoldo, che ricorda quell’incontro nel suo diario: «Sono stato a parlare ai giovani di don Emilio Gandolfo, sempre buono e affettuoso».
Esattamente un anno dopo, il 21 dicembre 1965, torna Padre Balducci, questa volta a Concilio appena concluso. «Mi piace – esordisce – che questo primo tentativo di sintesi sul Concilio lo faccia con voi giovani… aperti a questo tempo nuovo della Chiesa e della storia». Emilio raccoglie la conferenza di Balducci in una pubblicazione, sempre a sue spese, accompagnandola con il discorso di apertura di Giovanni XXIII e quello di chiusura di Paolo VI.
Emilio è commosso dalla Chiesa che ha abbandonato le vie trionfali per dilatare gli spazi della carità: «Nel Concilio la Chiesa è tornata a Betlemme – scrive a Natale 1965 – per ritrovare la semplicità e l’essenzialità della sua origine. È il “piccolo gregge” che non può dimenticare che ci sono altre pecore che non sono di questo ovile, e che tuttavia appartengono all’unico Pastore…Nel Concilio la Chiesa ha preso più viva coscienza della sua povertà e della sua ricchezza: è il vaso d’argilla che contiene il tesoro di Dio… La Chiesa esce dal Concilio esprimendo il mistero di Betlemme: una povertà che arricchisce il mondo». Tra i testi due brani di Paolo VI: dal discorso alle Nazioni Unite e da quello di chiusura del Concilio, che Emilio intitola: Amare l’uomo per amare Dio.
La Chiesa del Concilio era la sua Chiesa, la Chiesa del dialogo, la Chiesa che ritrova la sua vocazione profetica, capace di raccogliere «con reverenza e gioia» i semi del Verbo presenti in ogni cultura, in ogni religione, in ogni esperienza umana. Diceva di appartenere a quella che è stata definita la generazione dell’Esodo. Con la Terra Promessa dal Concilio intravista ma non raggiunta. Non aveva perso la speranza, ma nella lettera per la Pentecoste 1972 si interroga: «Il Concilio ci ha fatto rivivere la grazia di Pentecoste: è sembrato allora che la Chiesa fosse ritornata al fervore delle origini, pronta, come disse Giovanni XXIII, a compiere “un balzo in avanti”, libera da quella paura che prima della Pentecoste l’aveva rinchiusa nel cenacolo come in un ghetto. Ma si può dire che la paura è stata vinta?».
Si è interrogato più volte sulle speranze del Concilio e le delusioni: di “prova talvolta dura del dopo Concilio” ha scritto nel 72, dieci anni dopo l’apertura di quel grande evento della Chiesa.
Torna al Concilio nell’ultima lettera agli amici, quella che arrivò quando lui non c’era già più: «Questo secolo, fiero per le sue conquiste e insieme ferito per le sue sconfitte, è stato segnato profondamente da un evento di capitale importanza non solo per la Chiesa: il Concilio Vaticano II, che non senza divina ispirazione fu voluto da Giovanni XXIII e che Paolo VI da valente pilota guidò in porto. È stato un invito, fervido e appassionato, rivolto a tutti gli uomini ad attingere con gioia alle sorgenti della salvezza». Tra i testi proposti c’è un brano del Diario di Etty Hillesum, giovane ebrea morta ad Auschwitz: «Mio Dio, prendimi per mano… non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso… cercherò di non aver paura… cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro».