Sul suo computer gli amici trovano il suo testamento spirituale. È in una riflessione sul tema che era sempre stato al centro del suo pensiero, che aveva cercato di comunicare agli amici e ai fedeli, che aveva rammentato negli scritti come nelle omelie: la risurrezione della carne, il desiderio delle anime di ricongiungersi al proprio corpo, il “disio d’i corpi morti” del XIV canto del Paradiso. Per il titolo si era rifatto allo stesso canto di Dante: “la carne glorïosa e santa”. Lo trovano gli amici e lo pubblicano, alla prima occasione, Pasqua 2000. Un’opera breve, non finita, carica di sapienza, di passione, di speranza. «Non è sufficiente l’immortalità dell’anima», afferma Emilio. Con Tommaso ci dice: “L’anima non è tutto l’uomo, l’anima mia non sono io”. E con Paolo ripete: “Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto”. Ci ricorda che il catechismo cita Tertulliano: “La carne è il cardine della salvezza”, e la risurrezione dei morti è la speranza dei cristiani. Ripercorre poi le tre cantiche della Divina Commedia fino all’immagine del caldo amore divino che fa germogliare il fiore umano, con cui Dante canta il mistero dell’incarnazione: “Nel ventre tuo si raccese l’amore \ per lo cui caldo ne l’etterna pace \ così è germinato questo fiore”. E conclude con la voce del salmo 16: “Anche la mia carne riposa nella speranza”.