Sono anzitutto cristiano con voi,
e sacerdote per voi, per parlare di Lui a voi e di voi a Lui Emilio Gandolfo

il diario

Oggi, come poche volte, ho potuto misurare la sproporzione immensa fra le tue parole e le mie, fra le cose tue e la comprensione nostra. Il tuo linguaggio è duro e chi lo può capire. Conoscere senza credere non si può capire, senza amore non si può.
Emilio Gandolfo
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Emilio ha lasciato un diario che copre quasi trentacinque anni della sua vita. Lo inizia su un’agenda della Cariplo il 26 gennaio 1958. Lo terrà fino alla Pentecoste del 1992 con cadenza giornaliera e qualche lungo intervallo. È un diario dell’anima, in cui non mancano riferimenti a vicende personali e collettive e riflessioni sui conflitti e i drammi del paese e sugli eventi interni alla chiesa.

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Alcune pagine del diario

Domenica 26 gennaio 1958

“Come si è così si prega. Nel volgerci a Dio ci mostriamo come siamo. Quando preghiamo davvero, solo allora esistiamo veramente” (Guardini).

Ecco, o Signore, siccome ho davanti queste pagine voglio approfittarne per parlare con te. Per conoscere te e conoscere me.

Per conoscermi nella tua luce, per vivere nella tua luce. Ci sono in me molte oscurità che la tua luce deve rischiarare. Non voglio guardare dentro di me per rifugiarmi e chiudermi in me, per vedermi vivere, per specchiarmi.

Tu sei, o Signore, “interior intimo nostro” e quindi so che devo entrare nella mia stanza, chiudere l’uscio alle mie spalle per mettermi in ascolto nel “segreto”, nell’intimità del mio essere, in ascolto della tua voce. O Verbo del Padre, Verbo che il Padre dice nel silenzio dentro di me e nel silenzio bisogna ascoltare, io cerco il silenzio per ascoltarti. Parla non tacere. Parla e rompi la mia sordità. Parla e richiama la mia attenzione. Parla e rendimi docile alla tua voce. Quando tu taci torna il deserto. Quando parli, quando dici, tutto si fa “Dixit et facta sunt”. Fiat mihi secundum verbum tuum, come dici fai. Come sei operi; che io faccia come tu dici, che io operi come sono davanti a te. Devo esistere in te per agire. È tanto tempo che fuggo da me e da te. Ma sempre ho sentito la tua voce. Non mi hai mai abbandonato.

Mi hai fatto sentire il vuoto che solo la tua presenza può riempire.

Perché sono scontento? Perché non riesco a fare quello che vorrei o piuttosto perché non riesco ad essere come vuoi? Mi hai chiamato e mi chiami. Chi sei o Signore? Che cosa devo fare? Quello che devo fare me lo dici giorno per giorno attraverso le persone e le cose che sono guidate dalla tua volontà. Mi muovo tra le cose con ansia. Perché? Perché non ho il respiro ampio e profondo in te. Perché non esisto, non vivo come vorrei in te. Perché non ti cerco appassionatamente come dovrei, perché non mi fermo, non mi ancoro, non mi abbandono a te come dovrei. Perché ti agiti tanto? Perché non vivi, non respiri e non sei? In Ipso vivimus, movemur et sumus, vivere, muoversi ed essere veramente in te. Chi sei o Signore? Ecco la domanda, ecco la ricerca essenziale, ecco il vivere: conoscere te, cercare te e invogliare il più possibile gli altri in questa ricerca. Vano è ogni uomo senza la conoscenza di Dio. Noverim te, noverim me! È questo colloquio intimo profondo che bisogna riprendere e non interrompere.

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Alcune pagine del diario

28 gennaio 1958

Eccomi o Signore davanti a te, tu mi hai chiamato ed io rispondo, sorgendo dal letto, destandomi dal sonno. “Surge qui dormis et exsurge a mortuis, et illumina bit te, Christus”. Il gallo ha cantato perché si fa giorno e perché io mi desti. Il gallo è un rimprovero per quelli che sono pigri e per quelli che nella notte vilmente hanno tradito come Pietro. Inconsciamente magari, ma è facile dire: “Io non lo conosco”. L’oblio, l’ignoranza, la fuga, il tradimento. Non tanto di notte quando l’oblio si stende come un velo spesso, ma in pieno giorno quando si lascia il posto di guardia, quando non si è vigilanti. “Vigilate e pregate!” È un comando preciso. E invece prende il sonno e non si è più presenti a sé, agli altri, a te o Signore. Momenti di viltà e di tradimento, di vagabondaggio senza meta, sottratti alla guida del buon Pastore. Poi canta il gallo e lo sguardo del Signore riposa su di noi “Che cosa hai fatto? Dove sei andato?” “Mi sono nascosto”. Viene meno la vigilanza, la presenza.

Il Signore chiama e non rispondo, altri vengono a cercarmi e non mi trovano. “Non è in casa”. È la paura di stare soli. È la trascuratezza nell’appuntamento. È il non capire che io non mi appartengo, che non sono mio, ma degli altri, del Signore. Ma questo vuol dire piuttosto essere di nessuno! No, sono tuo. Salvami o Signore. Salvami da me stesso, dai miei istinti capricciosi di pecora matta. Chiamami, richiamami, riconducimi. Ridonami tu a me stesso e agli altri. Perché non ho ancora imparato ad abbandonarmi a te nel silenzio. Perché tanta fretta di andare quando sono davanti a te e in me? Andare dove? Non so neanche dal momento che vivo solo per questo. Si direbbe che questo non mi basta, che tu non mi basti. Intendi o Signore? Vedi come sono ignorante e indocile, vano e superficiale? Non conosco ancora il dono di Dio. Mi privo del silenzio e della calma per gustare in pace con te quello che tu mi dai: la manna nascosta. Al vincitore tu dai la manna nascosta e un nome nuovo che lui solo conosce e nessun altro. E intanto io mi aggiro nei sobborghi sbrigliato mentre tu mi aspetti alla porta: “Ecce sto ad ostium et pulso” “Illi antem neglexerunt”. Essi, ma io? Io col quale tu hai mangiato cibi squisiti, io che siedo alla tua mensa ogni giorno? Ancora non ho risposto. Ma parla o Signore e non tacere. Chiamami e destami, che io sia vigile e orante con te davanti al Padre e che poi sia più attento alla voce dei fratelli.

29 gennaio 1958

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Oggi, come poche volte, ho potuto misurare la sproporzione immensa fra le tue parole e le mie, fra le cose tue e la comprensione nostra. Il tuo linguaggio è duro e chi lo può capire. Conoscere senza credere non si può, capire senza amore non si può. Come può crederve in te chi crede solo in se stesso e chi cerca la gloria degli uomini? Stamane uscendo da scuola, ho avuto la sensazione che non riuscirò mai a fare capire le cose essenziali, non riuscirò mai ad accendere di entusiasmo per le tue cose i giovani, che di te e delle tue cose abbiano a concepire un senso di noia, se non di fastidio, di cose che non li interessano, che non toccano la loro vita; che io non sia riuscito neanche a scalfirli con le mie parole, questo oggi mi cagiona un senso grande di tristezza. L’anima mia è triste. Tristezza di non riuscire a dire, a interessare, ad appassionare. Sono loro sordi o sono io che non riesco a trovare il linguaggio e l’accento adatto? Eppure questa è tutta la ragione della mia vita. Non so fare altro e neanche questo so fare. Il mio orgoglio è abbassato e anche il mio coraggio è toccato. O Signore metti sul mio labbro le tue parole e guidami. È vano gioco di parole cui richiamo inutilmente mendicando l’attenzione. Non riesco a prenderli, non riesco ad averli. Parole, parole … ed è la verità. Ma la verità è fatta carne, il verbo è fatto carne. Ma il cuore è forse un po’ assente dalle cose che il labbro dice. Se sono vita devono generare vita. Se sono sale, devono dare sapore e non noia. Se il sale perde sapore, con che si salerà, sarà da buttare via. E le mie parole le ributtano indietro, rimbalzano. Sono cose che io so e sono cose che essi credono di sapere. Che cosa ho da dire di nuovo che serva alla loro vita? “Le mie parole sono spirito e vita”. Le tue parole erano la tua vita, o Verbo del Padre, e molti le hanno rifiutate. Mi hai affidato un compito difficile. Devo capirlo. E devo capire che questa non è letteratura e neanche godimento estetico. È luce che può far male agli occhi. È sale che il bimbo risputa, sale non miele. Sale che brucia sulle ferite o che cade a terra come la cosa più inutile. Che conto facciamo noi della verità? Noi amiamo noi stessi più della verità. Siamo amanti più del piacere che della verità. Noi teniamo prigioniera la verità ed essa non può farci liberi.

27 febbraio 1958

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Penso ai 40 giorni di Mosè, di Elia, di Gesù. Mosè parlava con Dio faccia a faccia come un amico parla con il suo amico. Elia cammina 40 giorni nel deserto fino al monte di Dio. Sì, Mosè ed Elia camminano e contemplano il senso, lo scopo del loro camminare è quello di contemplare. Il colloquio con Dio li rinnova. Mosè scende dal Sinai col volto pieno di luce con un fortissimo senso di Dio e pienamente solidale con i fratelli. Elia si scoraggia, crede che non ci sia più niente da fare, che non valga la pena di vivere e di battersi. Così Paolo a Corinto: “Parla e non tacere, perché io sono con te: qui c’è molto popolo che attende”. Sembra che nessuno mi attenda, che nessuno aspetti niente da me. Ma bisogna essere vigili e operanti. Sì, parlare dei fratelli a Dio, parlare di Dio ai fratelli. Essi non capiscono, ma Lui capisce sempre tutto. Saper attendere come Lui sa attendere ma sommamente presente e attivo presso il Padre. La pena di non poter fare, di non riuscire a dire, a farsi capire. È pena salutare che purifica e edifica. Pastore pigro e sonnolento che io sono! Signore, ora so meglio che cosa significa aver detto un giorno “Tu sei la mia porzione”; ora so che cosa significa essere stato chiamato, preso e messo a parte da te per i tuoi scopi; ora so che cosa significa essere un “separato”; ora capisco meglio il “lamento” e la “confessione” di Geremia. C’è una solitudine alla quale non posso sottrarmi, c’è un’incomprensione che non riuscirò a superare. Appartengo a te. Sì, tu mi hai chiamato per mandarmi, tu mi hai messo a parte per mescolarmi con loro come il lievito con la pasta; tu mi hai preso tra gli uomini e mi hai messo a servizio degli uomini, ma in quelle cose che si riferiscono a te. Del resto se tu stesso a dodici anni non sei stato capito da tua Madre quando dicesti che dovevi essere tutto nelle cose del Padre. Neanche tua Madre poteva entrare in quella sacra solitudine per cui tu sei Unigenito del Padre, per cui tu sei Sacerdote del N.T. e come posso io pretendere d’essere capito dai fratelli e anche dagli amici. Mi vorrebbero uno di loro, ma a un certo momento si accorgono che “sfuggo”, che non sono come loro, che appartengo ad un altro mondo. Essere a confine tra due mondi, essere in esilio doppiamente, essere di due città, essere di Dio ed essere degli uomini. Non mancare a Dio in nome degli uomini e non mancare agli uomini col pretesto di Dio: è questo l’equilibrio. Ma non potrò pretendere d’essere simpatico, di piacere sempre, non potrò sfuggire al sospetto che gravava su di te quando pure dicevi: “Il mio regno non è di qui”, quando pure la Chiesa dice di te e di sé “non eripit mortalia qui regna dat coelestia”. Quare premuerunt gentes et populi meditati sunt inania, si sono coalizzati contro Dio, Xto, Chiesa. Mi pare che Dio, in tali casi, ride dal cielo, ma poi parla severamente. Lui qui simul coelestia et terrestria moderavis. O Signore apri gli occhi che vedano i miei fratelli e a me dà coraggio per testimoniare tutta la verità con serenità e amore.

Sestri Levante, 6 aprile 1958 – Pasqua

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“Resurrexi et ad huc tecum sum, Alleluia! Posuisti super me manum tuam, Alleluia!”. Non mi preoccupo di sapere che significato hanno nel salmo queste parole, mi basta sapere che ne hanno uno autentico, pieno e gaudioso per me nella Liturgia di oggi, nella messa di oggi. Ho visto il Tabernacolo vuoto e l’altare spoglio. Mi sono fermato a guardare e a piangere come Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto finché oggi so che Egli è risorto ed è qui con me, a mangiare la Pasqua con me. Tu sei risorto e anch’io sono risorto in virtù della tua parola, in virtù del tuo soffio che suscita la vita e la vita eterna. Sono risorto e sono con te. Anch’io ti ho abbandonato come tutti, ti ho tradito vilmente; tu sapevi che lo spirito è pronto ma la carne è debole e adesso lo so anch’io; ti ho rinnegato ma tu non mi hai rinnegato. Il gallo ha cantato per annunciare un nuovo giorno e il tuo sguardo si è posato su di me per farmi capire che avevo sbagliato, per ricordarmi la tua parola, per suscitare il mio pentimento, per accordarmi la tua misericordia e non soltanto il tuo sguardo, ma anche la tua mano poni su di me.

La tua destra ha fatto cose mirabili, cose forti. La tua destra mi ha strappato dalla morte ed io non morirò ma vivrò per narrare le tue gesta, per dire a tutti quello che tu hai fatto per me. La tua mano si è posata su di me, risanatrice e protettrice, benefica e sicura. Ma, anche se dovrò camminare fra le ombre di morte non avrò paura perché tu sei con me. Tu sei con me ed io sono con te, voglio essere sempre con te o Buon Pastore che mi guidi alle Fonti d’acqua chiara, a pascoli verdeggianti. Tu sei Gesù di Nazareth che ha santificato l’umile e ignorata esistenza quotidiana, tu sei Gesù di Nazareth crocifisso, che morendo distrugge la nostra morte e risorgendo rifà la nostra vita. Tu sei Colui che è risorto come aveva detto. Così so che la tua parola è verità e che tutto si compirà secondo la tua parola; e come il Padre risuscitò te da morte, così risusciterà anche noi. Tu sei la primizia dei risorti, tu sei la nostra speranza, tu sei la nostra Pasqua.

Roma 27 aprile 1958 terza domenica dopo Pasqua

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Sono di ritorno dal viaggio col Virgilio da Venezia a Trento, al Garda, a Verona e a Padova. Ieri guardavo (non era certo la prima volta) le pareti della Cappella degli Scrovegni. Bisognerebbe spiegarlo come Giotto, il Vangelo, per farlo capire. La bellezza come questa dà alla testa come un vino troppo forte. Non solo bellezza ma verità, una bellezza che fa spiegare le ali all’anima. Ricordo le parole della Certosa di Firenze del Galluzzo “Intra, adora, illuminare”; ricordo anche le ultime parole del Rosmini raccolte dal Manzoni: “Adorare, tacere, godere”. A Verona il portale di S. Zeno ci introduce attraverso due pagine, Antico e Nuovo Testamento, alla presenza nascosta e silenziosa del Signore. La Bibbia si spalanca come la porta per introdurci alla contemplazione silente all’adorazione. Allora tutto tace. Tace tutta la bellezza che ha parlato agli occhi e al cuore. Tace ogni parola di fuori e deve tacere ogni parola di dentro “ipsa sibi anima sileat” taci anima mia e ascolta. Ascolta in silenzio e adora. Adora e taci. Taci, anima mia, e godi in silenzio il Verbo del Padre. Taci perché sei al cospetto del Signore. Taci ma giubila, Egli ascolta il grido intimo. Anima mia, taci strepitu clama affectu. D’un balzo attingi la fonte dell’eterna vita. Come balza la fiamma e lambisce il cielo. Siamo pellegrini, o Signore, sempre in cammino, sempre anelanti, sempre assetati, sempre melanconici, eppur gaudiosi per la speranza che tu hai posto in noi, per quello che ci fai pregustare. Celebrando sull’altare di S. Antonio ho letto il libro della Sapienza: l’invito a cercare.

Roma 13 dicembre 1958

Ho sentito il bisogno di salutare tutto il Virgilio prima di lasciare Roma. Ho chiesto che mi accompagnassero in questo viaggio. È un viaggio che ho sognato da molti anni e che ora mi accorgo non potrei compiere da solo. Raggiungerò a Brindisi il gruppo che parte da Venezia, ma è tutta gente che non conosco. Ma questi del Virgilio sono quelli che Gesù mi ha dato e che vorrei proprio presentare a Lui nella notte di Natale nella Grotta. Ecco, non sono solo, ci sono tutti questi che porto in cuore e che non ti nomino perché Tu li conosci uno a uno per nome. So che se facessi questo viaggio per conto mio, egoisticamente, non troverei quello che cerco. Non parto solo. Non vado solo per me, vado per tutti questi che nella notte santa, in qualche modo, nelle loro case e nelle loro chiese si uniranno col pensiero a me. Ora, prima di lasciare Roma, sulla via Ostiense, rivolgo un saluto a San Paolo e uno a San Pietro al Vaticano: vado nella loro terra. Essi, pure, debbono essere i miei compagni di viaggio, le mie guide. È scirocco e il cielo è coperto di densi nuvoloni. Apro il Breviario per recitare Mattutino. Domenica è la terza Domenica di Avvento: Prope est iam Dominus! Questo è il motivo per cui questa Domenica si chiama “gaudete”. “E così, o Signore, illumina i nostri petti e bruciali col tuo amore, affinché il cuore, staccandosi dalle cose caduche, si riempia di celeste dolcezza”. Il Signore ormai è vicino, la speranza dell’Avvento sta per compiersi. Noi ci rechiamo a Betlemme, pensando al viaggio della Vergine, quando salì da Nazareth in compagnia di Giuseppe verso il paese di David loro padre, perché così prescriveva Cesare Augusto col censimento, ma soprattutto perché stava per compiersi il tempo fissato dal Signore. Giunta la pienezza dei tempi, Dio mandò suo Figlio fatto da donna, affinché ricevessimo l’adozione filiale.

Mediterraneo 16 dicembre 1958

Sul ponte per assistere all’aurora. Recito le lodi mentre la luce del giorno rivela le coste della Grecia. Penso al Virgilio che vuole visitare la Grecia in primavera. Quando penso alla terra dei poeti e dei Filosofi, della saggezza e della bellezza, sento nascere in me tanto entusiasmo. Penso a Giustino che vide nella filosofia greca un’introduzione al Vangelo. Ma non posso non pensare a Paolo che trovò in Atene un grande ostacolo al Vangelo; non posso dimenticare l’indignazione che suscitò nel suo animo la vista di tanta ignoranza religiosa pur apprezzando l’anelito commovente al “Dio ignoto” espresso sull’altare che Paolo osservò. Non si può godere tranquillamente un’emozione estetica quando si è venuti a conoscenza del Vangelo. “Quel Dio che voi onorate senza conoscere, io sono venuto ad annunciare”. Non so ancora bene che cosa proverò quando toccherò la Grecia e salirò sull’Acropoli. Spero che non dimenticherò di raccogliere in Atene un ramoscello d’ulivo sacro a Pallade, dopo aver raccolto un ramoscello a Getsemani dove Gesù prese su di sé, per santificarla, l’angoscia umana, e superò la saggezza umana con la follia divina.

Alessandria ore 17.30

L’Ausonia è in partenza: lasciamo l’Egitto e l’Africa. Poco fa sul ponte della nave ho recitato il vespro: l’Antifona natalizia O Sapientia, quae ex ore Altissimi procedit e poi alle Lodi il cantico di Mosè, che è un peana di vittoria, la vittoria di Jahvè sugli dei dell’Egitto. “Cantabimus Domino gloriose enim magnificatus est.” Penso alla cristianità dell’Africa, ai nomi di Agostino e di Cipriano, di Clemente, Origene, Cirillo, ai nomi di Felicita e Perpetua. Penso al lavoro italiano in Africa, al tributo dato alla civiltà umana, soprattutto il contributo per il Vangelo di Cristo. Penso a Carlo De Foucauld che ha voluto essere il fratello universale sull’esempio di Gesù Cristo. Ci ho pensato attraverso i quartieri arabi in Alessandria: un brulichio di persone umane soprattutto di bimbi, una cosa veramente impressionante. Un mondo in fermento destinato a diventare popolo di Dio o massa dinamitarda: o l’unità si farà in Cristo o si farà contro i cristiani che dicono e non fanno, che conoscono la verità ma non la fanno. Non dimenticherò gli uomini che ho visto lavorare nella costruzione della stazione marittima fra il bitume, la calce e i mattoni, stracciati.

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6 aprile 1959

“Signore, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” oppure “Ragazzi, non avete preso nulla?” “No” “Gettate dalla parte destra e troverete”. Stamane uscendo da scuola, porto il peso dello scoraggiamento per una partita di pesca fallita. Ho parlato della Resurrezione e dell’Annunciazione. “Tutte queste sono cose che sappiamo già” mi hanno detto alcuni. “Tutto questo non ci interessa” mi hanno detto altri. Eppure dipende tutto dal fatto che Cristo è risorto e dal fatto che Dio si è fatto uomo! Ma la verità è che non sono riuscito a interessarli e suscitare il loro interesse, a convincerli che è una cosa molto importante e vitale per loro oggi, tutto questo che appartiene veramente alla loro vita di oggi. Forse non vi ho pregato abbastanza e non ci ho pensato abbastanza. Forse sono rimasto nel generico e nell’astratto. Quando le cose non vanno, devo avere il coraggio di cominciare da me a domandarmi perché non vanno. Non sarebbe giusto né risolverebbe niente accusare loro della cosa in se stessa. C’è sicuramente da fare qualcosa di più. Non bisogna scoraggiarsi, solo dopo aver fatto tutto il possibile si ha diritto di dire siamo servi inutili. Prima dovremmo dire siamo servi pigri e sonnolenti. E poi c’è da pensare alla pesca del lago di Tiberiade che annunciava la pesca di uomini. Bisogna essere pronti a gettare le reti sulla sua parola. Già, perché quando parlo di Lui, parlo perché sono mandato da Lui, parlo perché credo, parlo perché obbedisco alla sua parola. Ma debbo accogliere di più, attraverso la meditazione, la parola di Dio che è già in me, debbo esaminare più a fondo e assimilare più profondamente la testimonianza di Dio. Non debbo dare altre parole che quelle date a me dal Signore, la mia dottrina non è mia ma di Colui che mi ha mandato. Non è mia perché io non sono la luce e Lui soltanto è la luce. E tuttavia devo dire la “mia” dottrina perché deve penetrare più profondamente in me, devo dire il mio pensiero e guidare la mia vita. Quanto poco è ancora “mia”, quanto è ancora accanto a me, fuori di me. Il Maestro mi chiama a essere più discepolo per essere più maestro.

11 gennaio 1960

“Sono veramente contenta di trovare, ogni volta che ho l’occasione di incontrarla, un don Emilio più ricco di umanità soprannaturale, di scoprire un don Emilio sempre più amico di Cristo.” Questo mi ha scritto oggi Anna che sta per entrare al Carmelo. Non posso dire che mi faccia molto piacere, né che mi tranquillizzi, perché realmente quel poco che conosco di me non mi autorizza a prendere sul serio quest’ apprezzamento. Lo prenderò dunque, come devo prenderlo, per un augurio, un invito, un impegno. È questa la mia vocazione: rivelare, far apparire l’umanità e la benignità del Signore, essere un prolungamento della sua umanità. Perché, se agisco in nome suo, se ne continuo le funzioni, devo anche ricopiarne i sentimenti, cioè gli atteggiamenti interiori. Come l’umanità di Cristo, anche la mia deve essere “attraente” per un fascino interiore, per una forza interiore. E convincermi che veramente una cosa sola conta: l’amicizia di Cristo. Non è forse questa la parola più solenne e conclusiva dell’ordinazione: “Iam non dicam vos servos, vos autem dixi amicos”. O Signore, che non abbia a deludere Te, che non abbia a deludere quanti hanno fiducia in me!

30 gennaio 1962

Qui devorant populum meum…
devorant autem populum, qui
sua commoda ex illo capiunt,
non referentes ministerium suum
ad gloriam Dei, et ad eorum
quibus praesunt salutem.
S. Agostino in Ps. XIII,5

È un pensiero che va a Napoli dove si svolge il congresso della D.C., e che spinge a chiedere a Dio che gli uomini politici che si ispirano al Cristianesimo abbiano ad operare veramente a gloria di Dio e ad utilità di coloro che li hanno eletti.

…con desiderio di vedervi abitatori della cella del conoscimento di voi, e della bontà di Dio in voi: la quale cella è un’abitazione che l’uomo con seco dovunque va. In questa cella s’acquistano le vere e reali virtù e singolarmente la virtù dell’umiltà e dell’ardentissima carità.
S. Caterina da Siena, Lett. 37

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Roma 21 giugno 1963

“Non relinquam vos orphanos”. Così ci ripete il Signore il giorno di Pentecoste quando Papa Giovanni stava per andarsene e tutto il mondo è stato per quattro giorni e altrettante notti tutto riunito al suo capezzale. Il dolcissimo e amabilissimo Santo Padre ci ha lasciati ed è sembrato che con lui il Cristo se ne andasse; ma non possiamo dimenticare la sua assicurazione “Vado e torno a voi”.
Oggi solstizio d’estate, nell’ora in cui il sole raggiungeva la massima altezza e soprattutto nell’ora in cui il Cristo pendente dalla croce ci aprì nel suo cuore la sorgente di salute eterna, un po’ come Giovanni, abbiamo visto uscire dal cuore di Cristo, dal suo fianco aperto, come dalla vera porta, il novello dono. Mi è sembrato di veder rinnovata l’alleanza tra il cielo e la terra, tra Dio e gli uomini, nel dono del nuovo Pontefice. Mi è sembrato che il suo nome, Paolo, voglia esprimere la passione e l’impegno affidato all’apostolo delle genti di “evangelizzare ingentibus investigabiles divitias Christi”. E di che altro ha bisogno il mondo se non di vedere il cuore aperto e di lasciarsi inondare dal torrente di misericordia e di grazia che da quel cuore inesauribilmente scaturiscono? Sento perciò accendersi più viva in me la passione apostolica di Paolo, il più piccolo tra i santi, di portare lontano (non soltanto in senso geografico) a tutti (e non in senso generico, bensì attraverso contatti veramente e sinceramente personali) le ricchezze di Cristo che la Chiesa ha per tutti, veramente Chiesa dei poveri perché destinata anzitutto ai più poveri, ai più bisognosi, agli affamati e assetati che Dio vuole riempire di beni. Fa o Signore, che io non sia un ricco insensibile, che ha i beni e non li da e neanche lui li gode; fa o Signore che i miei occhi siano sempre rivolti a te che apri la mano e ci sazi di beni e il mio cuore sia sempre aperto per comunicare quello che è mio ed è di tutti, cioè quello che è tuo. Ma non potrò pretendere d’essere simpatico, di piacere sempre, non potrò sfuggire al sospetto che gravava su di te quando pure dicevi: “Il mio regno non è di qui”, quando pure la Chiesa dice di te e di sé “non eripit mortalia qui regna dat coelestia”. Quare premuerunt gentes et populi meditati sunt inania, si sono coalizzati contro Dio, Xto, Chiesa. Mi pare che Dio, in tali casi, ride dal cielo, ma poi parla severamente. Lui qui simul coelestia et terrestria moderavis. O Signore apri gli occhi che vedano i miei fratelli e a me dà coraggio per testimoniare tutta la verità con serenità e amo re.

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Voglio ascoltare che cosa dice in me lo Spirito, voglio ascoltare che cosa dice lo Spirito alla Chiesa, e come esso si esprime nel mondo intero attraverso le diverse voci. Gli chiedo la “scienza delle voci”.
Emilio Gandolfo

17 maggio 1966

Fammi conoscere Signore la mia fine,
quale sia la misura dei miei giorni;
che io sappia come sono fragile …
Oh! Sì, l’uomo è proprio un soffio …
Ora che cosa posso attendermi, o Signore?
La mia speranza è in te …
È tempo che io concentri la mia attenzione su di te, è tempo che ti segua dove tu vuoi condurmi, o Signore … Ora comincio a essere discepolo, comincio a essere cristiano … Fosse vero! Mi sento molto strano. Non posso dire di aver raggiunto la libertà dei figli di Dio. Non posso dire di attendere con piena dedizione al servizio, cui sono stato chiamato … Deus, quem nosse vivere, cui servire regnare est. Mi domando se ho preso sul serio la vita, se ho inteso bene il sacerdozio. Mi domando se sono cresciuto veramente; se davvero non sono più un bambino sballottato qua e là da ogni vento. Non è facile vivere, me ne rendo conto, facendo della vita un dono, senza illusioni e senza scoraggiamenti, in una fedeltà animata dalla speranza, in una tensione fervida per raggiungere colui, che sulla via mi ha raggiunto e afferrato. È sempre troppo facile trastullarsi con belle parole. Non è altrettanto facile essere desti, attenti e docili alla parola creatrice. È necessario unirsi a queste parole per generare il credente, lasciandoci a nostra volta generare. È facile acquisire il gusto letterario del Vangelo, ma non è altrettanto facile lasciarlo operare in noi per la salvezza nostra, così com’è destinato a essere: la forza di Dio per la salvezza di ogni credente. È facile contemplare il proprio volto in questo specchio e poi andare e dimenticarsi di come si è. Sono una terra che ha bisogno di essere rivoltata dall’aratro e irrigata dalla rugiada fecondatrice dello Spirito Santo; sono un vaso d’argilla che ha bisogno di prendere più viva coscienza della sua fragilità e insieme del tesoro divino che porta. Signore, che io possa ritrovarmi davanti a te, steso nella polvere, come quel mattino dell’ordinazione, partecipe della tua debolezza umana, per essere suscitato e innalzato dalla tua potenza divina. Ancora una volta, prendimi in mano e tieni la tua destra su di me: “Sono risorto e sono con te”. Voglio ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa e dice a me.

Roma vigilia di Pentecoste 28 maggio 1966

Il cielo è limpido, l’aria è stata purificata e consente una visibilità perfetta; c’è una luminosità singolare, si ascolta il cinguettio sommerso degli uccelli e quasi si percepisce un frullio d’ali. Penso al mattino della creazione, quando lo Spirito di Dio era librato, come una colomba con le ali spiegate, sulle acque primordiali, per covarvi la vita; e penso al gesto del Signore che, con il suo soffio vivifica la creta plasmata dalle sue mani e fa dell’uomo un essere vivente a sua immagine. Penso alla profezia di Ezechiele che annuncia uno spirito nuovo che dovrà rinnovare intimamente l’uomo e raccogliere nell’unità il popolo di Dio disperso. Penso al sangue e all’acqua scaturita dal costato di Cristo e penso al gesto di Cristo che, risorto, alita sugli apostoli per dare inizio alla creazione nuova; e penso all’effusione abbondante della Pentecoste che riempie e inebria il cuore degli apostoli e per cui l’universo intriso in ogni parte esulta e canta la grandezza di Dio. Vorrei davvero prendere coscienza di questa presenza, di questo dono ineffabile; vorrei intrattenermi con il dolce ospite dell’anima, aprirmi a vele spiegate al suo influsso potente e lasciarmi portare; sento il desiderio di obbedire allo Spirito Santo per giungere alla libertà dei figli di Dio.

Percepisco in qualche modo i suoi gemiti ineffabili che salgono dal fondo del mio cuore verso il Padre e che il Padre intende. In qualche modo a questi gemiti mi accordo, io che nella Chiesa ho ricevuto le primizie dello Spirito; e so che l’intera creazione geme, tutta protesa in avanti, aspirando e aspettando la manifestazione della gloria dei figli di Dio. Sono convinto che il Cristo non ci ha lasciati orfani, che se n’è andato ed è ritornato a noi, e che, mediante il dono dello Spirito, egli è in noi e noi in lui, come in lui è il Padre; e sono convinto che a partire da “quel giorno”, ci è dato di sapere questo e di averne una coscienza sempre più profonda. Il mondo non può ricevere questo dono perché lo rifiuta; ma è il mondo che ha rifiutato Cristo. Ma è anche vero che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo intero, e che l’universo intero è pervaso di gioia per questa effusione.

Voglio riconoscere le vestigia dell’antico fuoco, “Veteris vestigia flammae”, nella Chiesa che è sempre la Chiesa di Pentecoste e anzitutto in me che sono tempio dello Spirito Santo, a partire dal Battesimo e dalla cresima fino all’unzione sacerdotale. Voglio altresì ricercare, riconoscere, conoscere la presenza dello Spirito nell’universo, nelle cose che respirano e lodano il Signore, in ogni espressione di verità, che chiunque la dica, viene dallo Spirito Santo, in ogni uomo in cui l’unzione della grazia non viene mai meno. Se nel giorno di Pentecoste “non si trattò di un inizio del dono ma di un aumento di generosità”, e se gli uomini “vissuti nelle antiche età furono vivificati dall’opera santificatrice dello stesso Spirito”, allora è certo che l’inizio di quell’opera può essere dovunque e in chiunque e che la Chiesa, dotata della “scienza della voce”, può e deve cogliere in ogni uomo e in ogni popolo la voce proveniente dallo Spirito Santo.

A ben pensare, ci sembra d’essere appena all’aurora del Cristianesimo, tanto vasto è il mondo da ascoltare, tanto diverso si fa l’uomo dall’uomo in una civiltà che si evolve, e tanto numerose, dunque, si fanno le lingue incomprese (Balducci).

Voglio ascoltare che cosa dice in me lo Spirito, voglio ascoltare che cosa dice lo Spirito alla Chiesa, e come esso si esprime nel mondo intero attraverso le diverse voci. Gli chiedo la “scienza delle voci”.

“A che serve avere il volto d’angelo se si ha il cuore di pietra?”

12 maggio 1967

Ho incontrato una donna piuttosto agitata che si lamentava molto delle suore che erano state, diceva, molto sgarbate con lei: “Hanno il volto di angelo e il cuore di pietra”. È la vigilia di Pentecoste. Il profeta annunciava che Dio ci avrebbe cambiato cuore: ci avrebbe tolto il cuore di pietra per darci un cuore di carne capace di amare. A che serve avere il volto d’angelo se si ha il cuore di pietra?

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Roma 17 maggio 1963

Signore, è notte avanzata, ma non posso fare a meno di chiudere questa giornata senza dirti grazie con tutto il cuore per avermi chiamato, per avermi consacrato alla tua gloria, per avermi mandato a portare il tuo nome. Vaso d’argilla scelto per portare un tesoro divino. Ho fatto esperienza della mia fragilità ma insieme della solidità che viene da Te, della mia povertà e della tua ricchezza. Signore, grazie! Mi sento più umano, più fraterno; mi sento sacerdote per gli altri, un cristiano con gli altri. Ho detto Messa all’Altare di S. Filippo alla Chiesa Nuova; come l’anno scorso c’era una piccolissima rappresentanza dei giovani a servizio dei quali in particolare io sono: 21° anno, maggiorenne per la seconda volta. Signore, come un passero trovo rifugio sotto il tuo tetto e come la rondine il nido dove riporre i piccoli. Piccolo come un passero ma fecondo come la rondine; le ali sotto cui mi rifugio, il nido dove depongo i piccoli. Signore, ti ho ricordato stamane i miei genitori, il fratello, la nonna che mi è stata madre, Santo Stefano, Lerici, La Chiappa, Casarza, Palermo, Roma; tutti gli incontri e anche le fatiche, anche le mie negligenze e le mie infedeltà. Signore, metto tutto nelle tue mani, mi metto nelle tue mani. Ti ricordo tutti quelli che mi vogliono bene e tutti quelli che mi aiutano. Signore eccomi, nelle tue mani rimetto il mio spirito, effondi su di me il tuo Spirito e creami di nuovo, plasmami, santificami.